La fotografia è sempre stata lo strumento principale per raccontare il sociale, per denunciare l’abuso di potere, per sensibilizzare la pubblica opinione: in altre parole, uno strumento di democrazia. La sua divulgazione sui giornali o sui magazine ha segnato le epoche e ha favorito i processi storici che generano cambiamento, contribuendo a sensibilizzare la pubblica opinione. Le immagini delle vittime della guerra in Vietnam, quei fotogrammi sgranati che raccontavano la fuga delle genti dai bombardamenti al napalm, hanno contribuito non poco a imporre la fine di quello strazio. Ricordo benissimo i colloqui di pace di Parigi tra Ho Chi Minh, che pochi sanno essere stato anche fotografo, e i negoziatori americani. I telegiornali ci raccontavano di un imminente fallimento, ma fuori dai palazzi la gente si opponeva alla sconfitta della ragione, dimostrando con i cartelli che riproducevano quelle immagini, invocando la pace. Tutto questo ha sempre dato molto fastidio al potere. Ma facciamo un altro salto nella storia: Henry Cartier Bresson trenta anni prima ci insegnava a guardare il mondo con al centro l’uomo. Lui è il padre di tutti noi, ci ha preso per mano insegnandoci il potere di sintesi dell’immagine. E oggi cosa siamo ? La sovraesposizione visiva ci disorienta, ci chiediamo dove finisca il reale e dove cominci il virtuale. I magazine che non comunicano più. Tutto ciò crea una evidente crisi di credibilità a tutto vantaggio dell’assuefazione che porta disinteresse e rassegnazione. La realtà va raccontata e discussa per poter essere cambiata. Quando si copre il viso di un essere umano con dei pixel sfuocati il potere gongola e l’arte piange.
ODIO LA PRIVACY

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